La valutazione del danno da lutto
La valutazione del danno psichico vede una diatriba storica fra diritto e psicologia, che negli anni, e con l’evoluzione giurisprudenziale, si è articolata in nuove definizioni che affiancano quella di danno biologico di natura psicologica, o danno psicologico (definito come “lesione all’integrità psicofisica della persona”, che sottolinea non solo la dimensione fisica del soggetto leso, ma anche quella psichica), vale a dire il danno morale e il dannoesistenziale. Certo è che il danno da lutto è l’unico danno “non risarcibile”, in quanto il risarcimento non può ripristinare la condizione antecedente, né affievolire quella insopportabile condizione di assenza e di solitudine che domina la vita presente. Semplicemente può tuttavia almeno sembrare un atto di giustizia, a fronte di un dolore che non avrà mai prezzo.
Tornando alle definizioni, il cosiddetto danno morale consiste nel turbamento soggettivo, nel disagio, nella sofferenza psico-fisica che si manifesta come conseguenza dell’evento lesivo in maniera transitoria. La Corte Costituzionale (n.233/2003) definisce il “danno morale come transuente turbamento dello stato d’animo della vittima”. Il risarcimento del danno morale viene perciò definito pretium doloris o pecunia doloris.Il danno esistenziale invece delinea la “compromissione della qualità di vita normale del soggetto o uno stato di disagio psichico che non arriva a configurarsi come un quadro clinico patologico” (Pajardi, Macrì, Merzagora, Betsos, 2006). Il danno esistenziale, quindi, pone l’individuo innanzi ad un cambiamento negativo e duraturo dello stile di vita, cagionando un peggioramento della qualità della vita stessa.
Mentre il danno morale esprime un “sentire”, il danno esistenziale definisce una perdita di chances, un “non poter più fare”, inficiando i rapporti familiari, affettivi, sociali, le attività di svago ed intrattenimento e impedendo di svolgere le normali attività della vita quotidiana. Con la sentenza n. 2050/2004 della quarta sezione penale si precisa che “il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali”.
La valutazione della sfera esistenziale dell’uomo, ossia la stima del peggioramento della qualità della vita, del perturbamento successivo al danno nella vita quotidiana, accompagnato alla rinuncia forzata di occasioni felici, è ben espresso nel concetto di perdita del piacere della vita (“lost pleasure of life”) o perdita della gioia di vivere o perdita edonica. Tale concetto indica la scomparsa della capacità di apprezzare le attività del proprio stile di vita (ad esempio vedere un film, suonare il pianoforte, guidare la macchina) e le generiche esperienze piacevoli. A sottolineare la sempre maggiore enfasi che tale concetto ha assunto basti pensare che è di recente stato creato un nuovo strumento di valutazione delle conseguenze negative di un danno, la Lost Pleasure of Life Scale (LPL).
Da qui possiamo facilmente desumere come l’attenzione ai pregiudizi di tipo esistenziale a fronte della perdita di una persona cara non possano e non debbano non essere presi in considerazione alla luce sia della nuova giurisprudenza sia di quella professionalità che come esperti non dobbiamo mai dimenticare. Spesso al lutto vengono ricollegate diagnosi quali quelle del Disturbo dell’Adattamento, Disturbo Depressivo Maggiore o Disturbo post Traumatico da Stress. Non sempre, però, nel caso di morte di un familiare, e quindi di danno da lutto, le dimensioni del danno possono essere ricomprese entro categorie nosografiche, proprio perchè accanto alla dimensione biologica può trovare spazio la dimensione esistenziale.
Il danno da lutto è una crisi, ossia un momento della vita caratterizzato dalla rottura degli equilibri precedentemente acquisiti e dalla necessità di trasformare i consueti schemi emotivi e cognitivi. Lo stato di crisi richiede quindi un nuovo adattamento e di conseguenza determina una apertura al cambiamento, verso la ricerca di una soluzione che può essere adattiva o disadattiva. Nelle persone in lutto la ricerca di un nuovo adattamento passa attraverso una serie di tappe che si snodano con il passare delle settimane e dei mesi, tuttavia quando il lavoro del lutto fallisce, esso può durare anche anni. Ovviamente tali fasi sono sfumate, e il singolo individuo può oscillare avanti e indietro tra l’una e l’altra.
Si tratta delle classiche fasi del processo di elaborazione del lutto: Fase di stordimento, fase di ricerca e struggimento per la figura perduta a cui segue una fase di disperazione e infine si giunge ad una fase di riorganizzazione. Tutte queste fasi sono dolorose, e, solo se si giunge positivamente alla fase di riorganizzazione potrà emergere, lentamente, la capacità di reinvestire le proprie energie e gli affetti. Non tutti però riescono a giungere a questa positiva riorganizzazione e può accadere quindi che nel processo di elaborazione vi siano delle ccomplicazioni o dei blocchi.
Tra i fattori che possono influenzare l’evoluzione di un lutto complicato vanno annoverati: la modalità della morte (una morte improvvisa e inaspettata impedisce al familiare di abituarsi all’idea stessa della perdita); l’intensità della relazione col defunto; precedenti esperienze di perdita di persone significative; precedenti disturbi psichici, di solito a sfondo depressivo e ansioso.
A questo proposito vari autori (Corte e Buzzi) sottolineano come sia fondamentale in sede di accertamento da danno biologico da lutto, analizzare “…le covalenze affettive che legavano il superstite al defunto la cui intensità (o lassità) costituisce evidentemente il primo elemento atto a suffragare, o a mettere in dubbio, la plausibilità di una reazione psicopatologica alla perdita relazionale”. “Si tratta dunque di indagare le caratteristiche quali-quantitative dei rapporti psico-emotivi effettivamente intercorsi tra il defunto e il sedicente danneggiato dalla perdita del medesimo, aprendo un capitolo che potremmo definire “anamnesi relazionale”.
In sintesi è necessario indagare “.. in quella peculiare situazione di anomala interruzione del rapporto con il defunto e i meccanismi psicodinamici attraverso i quali tale interruzione, colpendo quell’individuo in quel determinato modo e momento, può averne destabilizzato l’assetto psico-comportamentale”.